LA REVERSIBILITÀ DELL’EFFETTO DOMINO. TURISMO ENOGASTRONOMICO E CAMBIAMENTO CLIMATICO – SARA ROVERSI

Sara Roversi, Future Food Institute

Fondatrice del Future Food Institute e direttrice esecutiva del master Food Innovation Program. Esperta di innovazione nella filiera agroalimentare e sostenibilità, è promotrice di progetti di innovazione sociale, cooperazione internazionale e programmi di alta formazione. Collabora con istituzioni governative, centri di ricerca e imprese del settore per sviluppare progetti relativi al futuro dell’alimentazione. Negli ultimi dieci anni si è concentrata sull’empowerment di giovani talenti nel settore agroalimentare. È membro dell’Action Council on Sustainability & Global Emergencies al B20 sotto presidenza italiana. Ha co–ideato il progetto goodaftercovid19.org.

 

Ispirandoci all’antico gioco in cui ventotto tessere, disposte verticalmente, a breve distanza l’una dall’altra, cadono per effetto della caduta della prima, definiamo effetto domino una catena di conseguenze innescata da un evento primario; una serie di reazioni dove gli esiti degli eventi secondari possono essere persino più gravi di quelli dell’evento primario.

Il 20 marzo 2023, l’IPCC, pubblicando il «Climate Change 2023: Synthesis Report», con una frase ha mostrato nero su bianco la prima tessera che ha fatto cadere la seconda da cui ha preso origine la catena di eventi estremi che si sta abbattendo sul nostro pianeta: «l’influenza umana» ha «riscaldato l’atmosfera, gli oceani e la terraferma». Da qui, si sono verificati «cambiamenti diffusi e rapidi nell’atmosfera, negli oceani, nella criosfera e nella biosfera».

Secondo i dati del Copernicus Climate Change Service, resi noti anche dalla World Meteorlogical Organization (OMM) dell’ONU, il luglio 2023 è stato il mese più caldo da quando abbiamo iniziato a monitorare le temperature del pianeta: +0,72 °C dal 1992; e +1,5 °C, rispetto alla media del periodo 1850–1900. Con una probabilità del 98%, l’OMM avverte che uno tra i prossimi cinque anni si rivelerà come il più caldo mai registrato; e stima, con una probabilità del 66%, che questo possa superare, seppure temporaneamente, +1,5 °C, rispetto al periodo preindustriale. Ad agosto 2023 – si legge nell’indagine di Copernicus – anche la temperatura degli oceani ha raggiunto il record storico di 20.96 °C. Tale condizione è dovuta principalmente alle emissioni di gas a effetto serra: l’IPCC attesta che le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera sono state le più alte di qualsiasi altro momento, da almeno 2 milioni di anni; e da circa 800.000 anni quelle di metano e protossido di azoto. È di grande impatto il grafico dello Scientific Visualization Studio della NASA, che ci ha mostrato una Terra completamente avvolta dalle emissioni, con concentrazioni preoccupanti sul Mediterraneo. D’altronde, come dimostra il «Macroaeconomic Climate Stress Test di Scope Esg» di Scope Ratings, l’Italia è uno tra i Paesi più vulnerabile ai cambiamenti climatici.

Dal riscaldamento globale, il suddetto effetto domino propagatosi in ogni regione del mondo: fenomeni meteorologici e climatici estremi; perdite e danni diffusi alla natura e alle persone; ondate di calore; siccità e cicloni tropicali; precipitazioni intense e inondazioni; acidificazione degli oceani e ritiro dei ghiacciai; perdite diffuse di specie, con eventi di mortalità di massa registrati sulla terraferma e sull’oceano.

Sono due le principali «attività umane» che, per l’analisi dell’IPCC, hanno «inequivocabilmente causato il riscaldamento globale»: il settore dell’agricoltura, della silvicoltura e di altri usi del suolo (AFOLU), responsabile del 22% delle emissioni globali di gas serra; e quello dell’energia, dell’industria, dei trasporti e degli edifici, con una percentuale del 79%. Uno tra i fattori che più alimenta quest’ultimo è il turismo – secondo una recente ricerca dell’Istituto Ircm, nello specifico responsabile del 9,5% delle emissioni globali.

Partiamo dall’AFOLU. Guidata dalla diffusione di diete squilibrate, ad aumentare in modo significativo la vulnerabilità dell’ecosistema è un’espansione agricola insostenibile: un modello agroalimentare che ha trasformato la terra in industria, provocando inquinamento, danni alla biodiversità naturale, erosione e degrado del suolo, deficit di risorse idriche e terrestri, alterazioni del paesaggio, e squilibrio sociale. Alcune conseguenze sono irreversibili: basti pensare che, con le tecniche esistenti o con le misure previste, determinate emissioni provocate dal settore – come metano e ossido di diazoto – non potranno mai essere eliminate del tutto dall’atmosfera.

Come precisa l’IPCC, il paradosso è che nonostante la produttività agricola sia complessivamente aumentata, il cambiamento climatico – che è appunto provocato in modo significativo dal settore – ne ha rallentato la crescita complessiva, con impatti negativi sulla resa dei raccolti e delle colture, soprattutto nelle regioni a media e bassa latitudine. Se si aggiunge che il riscaldamento degli oceani ha contribuito a una diminuzione complessiva del potenziale massimo di cattura, aggravando gli impatti della pesca eccessiva per alcuni stock ittici, e influendo negativamente sulla produzione alimentare dell’acquacoltura e della pesca dei molluschi in alcune regioni oceaniche, è evidente che la compromissione dell’intero approvvigionamento alimentare mondiale è già a rischio; dunque, molto prima che le temperature superino il limite di 1,5°C fissate dall’Accordo di Parigi.

Focalizzandoci sullo scenario italiano, secondo Coldiretti, rispetto al 2022, quest’anno si è verificato un taglio del 10% delle produzioni di grano, del 14% di uva e vino, del 63% di pere e del 70% di miele, e una riduzione del 20% della produzione di latte.

L’agricoltura è destinata a cambiare, insieme alla nostra alimentazione. E lo dimostra la migrazione, verso il Nord del nostro Paese, della vite e dell’ulivo, così come la possibile coltivazione di frutti tropicali al Sud.

Questa non è una buona notizia. Tra i sopracitati motivi, l’estinzione di alcune eccellenze enologiche e gastronomiche. È un dettaglio poco considerato: ma occorre ricordare che il cambiamento climatico agisce in modo significativo anche sulle condizioni tradizionali per la stagionatura di salumi o per l’affinamento di formaggi – che, solo in Italia, rappresentano una proporzione ingente dei 349 Presìdi Slow Food e per l’invecchiamento del vino. Secondo un altro studio effettuato da Coldiretti, la vendemmia in Italia nel 2023 subirà un calo di produzione di circa il 14%. L’aumento delle temperature e la carenza di precipitazioni hanno ripercussioni sulla produttività delle viti e sulla qualità delle uve raccolte. Le strategie di compensazione – come l’inserimento di vitigni più resistenti alla siccità, l’anticipo della vendemmia o lo spostamento in altura e i vitigni – non sono poi applicabili ovunque. A lungo termine, quindi, la viticoltura così come la immaginiamo oggi potrebbe scomparire (si pensi ad alcuni vitigni particolarmente sensibili ai cambiamenti climatici, come il Sangiovese; o al rischio di estinzione delle uve di Merlot nel Bordeaux). La situazione si complica ulteriormente se si considera che la garanzia di qualità di un prodotto dipende dalla coltivazione in una determinata area, messa oramai a rischio o resa infattibile dall’emergenza climatica. Perché se è vero che la gastronomia è il risultato dell’azione dell’uomo, questa è possibile a partire dalle condizioni imposte dal clima.

L’IPCC cita comunque possibili opzioni di mitigazione, ovvero misure tramite cui rendere meno gravi gli impatti provocati dal settore: ad esempio, il passaggio a diete sane o l’intensificazione di pratiche agricole sostenibili, che potrebbero ripristinare gli ecosistemi.

Nello studio sono poi citate alcune possibilità di adattamento, tramite cui anticipare gli effetti avversi per prevenire o ridurre al minimo gli eventuali danni, o sfruttare le opportunità che possono presentarsi. Tra queste: il miglioramento delle cultivar, l’agro–forestazione, la diversificazione delle aziende agricole.

Queste strade – noi italiani lo sappiamo – sono percorribili, e non hanno a che fare solo con attività di sussistenza. Esiste, e dev’essere diffusa, un’agricoltura che rispetta i principi della sostenibilità, si prende cura delle risorse, riduce e monitora il percorso che va direttamente dal campo alla tavola – non passando per l’industria. Un sistema che tutela non solo la salute degli ecosistemi e, dunque, del pianeta, ma anche quella dell’individuo, in relazione al benessere fisico, agli aspetti sociali, con la salvaguardia dei piccoli produttori, e culturali, con la conservazione dei saperi tradizionali. Un modello che non si incardina mai sul cibo come merce da consumare (non dobbiamo dimenticare che oggi il 90% del cibo umano proviene da 120 varietà; e che solo 12 vegetali e 5 animali forniscono più del 70% di tutta l’alimentazione umana), ma come risorsa da preservare.

Passiamo ora al secondo settore, a quel 79% di emissioni provenienti dall’energia, dall’industria, dai trasporti e dagli edifici. E, come accennato, inevitabilmente dal turismo, toccato da ognuno di questi aspetti: un organismo estremamente complesso che, estendendosi in tutti i Paesi, su vasta scala, coinvolge diversi soggetti che operano con tipi di attività nettamente differenti, rendendo difficile persino la stima dei suoi impatti diretti. C’è difatti una mancanza di una misurazione standardizzata o universalmente accettata per le sue emissioni complessive: è responsabile di quelle prodotte dal cibo consumato nelle strutture ricettive? O solo di quelle legate al trasporto? O di entrambe? Di certo, come precisa lo studio dell’UNTWO, «Climate Action in the Tourism Sector», è chiaro che il settore ha una responsabilità significativa nella decarbonizzazione e che la maggior parte delle riduzioni delle emissioni deve provenire dai trasporti.

Un precedente rapporto del 2019 dell’UNTWO, pubblicato in collaborazione con l’International Transport Forum (ITF), ha stimato che le emissioni del settore turistico legate al trasporto sono cresciute di almeno il 60% dal 2005 al 2016, e che le emissioni di CO2 potrebbero aumentare almeno del 25% entro il 2030.

Così come l’agricoltura, anche il turismo è allo stesso tempo vittima e carnefice di sé stesso, contribuendo al cambiamento climatico e rappresentando una tra le economie da esso più colpite. L’aumento delle temperature globali e i relativi eventi climatici estremi stanno provocando non pochi cambiamenti nel settore: l’agenzia di rating Moody’s ha previsto che le ondate di calore nei prossimi anni metteranno a rischio mete di attrazione – come Italia, Grecia e Spagna – e diminuiranno l’afflusso durante la stagione estiva. Si potrebbe verificare, insomma, un processo di obbligata destagionalizzazione.

Anche in tal caso, incrociando i dati sulla vulnerabilità climatica con quella turistica, si possono individuare delle strategie di mitigazione e adattamento: certo, compiere scelte sostenibili relativamente ai trasporti, agli alloggi e ai prodotti a bassa intensità energetica; ma anche, e forse soprattutto, prediligere destinazioni più vicine.

Il nostro gioco del domino si trova ora a un punto cruciale: le due file di tessere del domino – la prima, provocata dall’agricoltura, e la seconda, provocata dal turismo – si sono scontrate. E la loro rispettiva reazione a catena si ferma ora nel concetto di prossimità. Perché il cambiamento climatico è un problema globale, ma le possibilità che abbiamo per invertirlo sono e devono essere locali.

Se le strategie di adattamento o mitigazione contro gli effetti del turismo possono essere individuate in forme di fruizione del territorio lente, slow, in viaggi che penetrano in modo sostenibile attraverso il paesaggio, tutelandolo e avvalorandolo, quelle relative all’agricoltura possono realizzarsi con pratiche sostenibili e a filiera corta, rispettose non solo della varietà naturale ma anche di quella culturale. Dal momento che qualsiasi traiettoria di sviluppo sostenibile dev’essere integrata o reintegrata con altri settori, il turismo enogastronomico può essere una possibile risposta, un punto di incontro. Le tessere del gioco, in tal caso, non solo si fermano, ma impilandosi una sull’altra costruiscono.

Da una parte, c’è l’agricoltura sostenibile: quella che usa in modo sapiente le risorse idriche, che riduce la dipendenza dai combustibili fossili, che rallenta il processo di desertificazione, che si basa su tecniche che conservano l’umidità e l’anidride carbonica del suolo, proteggendolo dall’erosione e contrastando così alcune delle conseguenze dei principali eventi estremi. Dall’altra, c’è il turismo sostenibile, quello che, secondo l’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite, «tiene pienamente conto dei suoi impatti economici, sociali e ambientali attuali e futuri, rispondendo alle esigenze dei visitatori, dell’industria, dell’ambiente e delle comunità ospitanti». Insieme, la sostenibilità lenta del turismo enogastronomico.

Un turismo che si incardina in un tipo di produzione su piccola scala che utilizza le risorse in modo ottimale, che integra un’agricoltura sana alla cura dei sistemi ecologici, alla produzione di cibi nutrienti, alla assunzione di una responsabilità sociale, all’osservanza di tecniche e conoscenze tradizionali; e alla salvaguardia della biodiversità – che consente alla natura di adattarsi ai cambiamenti prima, e di contrastarli poi.

Un turismo che riavvicina ai territori e li anima: valorizzando le varietà locali, preservate nella loro eccellenza, così protette indirettamente da possibili estinzioni; tutelando le produzioni tradizionali, i saperi, le ritualità, le competenze, i metodi di produzione antichi (sostenibili ante–litteram); salvaguardando varietà autoctone che garantiscono i cicli di autoregolazione naturale; dando supporto a intere filiere e agendo in termini di sostenibilità sociale. Un turismo che riduce l’impatto ambientale anche educando alla coscienza di cosa produciamo, di come lo distribuiamo e di quale cibo ci nutriamo.

Focalizzandoci solo sull’Italia, è evidente che questa non solo può essere una strada auspicabile, ma percorribile. Nel 2023, il 58% dei viaggiatori, con un valore superiore del 37% rispetto al 2016, ha compiuto almeno un viaggio con principale motivazione legata all’enogastronomia; negli ultimi tre anni, circa il 50%.

Il consumatore, di qualsiasi tipo sia, ha un potere: orientare il mercato con la consapevolezza delle sue scelte. Per alimentarla – trasformando così il turismo enogastronomico in una possibilità di cambiamento e di inversione di due tra le principali cause del cambiamento climatico – è necessario avvicinare il viaggiatore alle eccellenze della nostra terra. Nelle città, eventi a filiera corta, degustazioni di prodotti locali o biologici e mercati rurali rappresentano un potentissimo strumento in tale direzione: non solo luoghi di acquisto, dove poter degustare l’enogastronomia locale e desiderare di volerla scoprire ulteriormente, ma opportunità di apprendimento e di informazione, di conoscenza di tecniche produttive virtuose, di avvicinamento alle fondamenta culturali del territorio, di rivelazione dei patrimoni, di educazione su stili di vita sani e sostenibili.

Il turismo enogastronomico, responsabile e consapevole, se accolto da un territorio ricettivo e impegnato nella tutela della sua autenticità, innesca sempre una rigenerazione integrale. È un turismo sostenibile che da avvio ad un processo di creazione e prosperità diffusa nella dimensione politica, economica, sociale, culturale, umana e ambientale dei territori. Realizza una rigenerazione ecologica che pone in equilibrio gli spazi tra tessuto urbano e rurale, che rafforza l’economia, infondendo nella comunità un senso di appartenenza che induce alla cura dell’ecosistema e degli elementi essenziali (suolo, foreste, risorsa idrica ecc.), alla costruzione e al recupero degli edifici, al potenziamento dei servizi; che riequilibra gli spazi tra tessuto urbano e rurale. Un turismo che contrasta lo spopolamento o la desertificazione sociale dei luoghi, una possibilità importante per la tutela della biodiversità e per la sopravvivenza delle tradizioni; che sostiene le imprese – a loro volta, alimenti e sostanze della cultura locale. Il turismo enogastronomico funge sempre da strumento vivificatore dei luoghi perché poggiato su una base – quella del gusto – che, prima ancora di essere un bene, un bisogno e un piacere, è un veicolo di identità, è un linguaggio universale per le connessioni, è una forma di ospitalità.

Ma ora assume su di sé un ulteriore ruolo: quello di trasformare una possibile fine in un inizio, trasformandosi in salvezza. Interrompere l’effetto domino dell’irresponsabilità delle nostre azioni, mosso da due tra le «tessere» più gravose dell’emergenza climatica.

La curiosità, soprattutto qualora agisca sui sensi, anima il movimento. A noi la scelta – e oggi il dovere – di muoverci lentamente, e nella giusta direzione.