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La sostenibilità delle pratiche enogastronomiche

Greg Richards, Università NHTV di Breda e Università di Tilburg (Paesi Bassi)

Oggi la sostenibilità è un tema assai dibattuto e controverso. Molte sono le persone che tendono ad usare meno l’aereo, a mangiare meno carne e a raccogliere la plastica sulle spiagge dove decidono di trascorrere le proprie vacanze. Siamo tutti più consapevoli del fatto di star consumando le risorse del nostro pianeta più velocemente di quanto dovremmo e che i combustibili fossili finiranno in un futuro molto vicino.
Se il mantenimento di queste risorse rappresenta un problema da affrontare, come possiamo rendere l’enogastronomia sostenibile? Questa è una domanda importante a cui rispondere, non solo per il ruolo che questa ha nella vita delle persone, ma anche poiché costituisce un elemento di attrazione turistica che spinge sempre più persone a viaggiare.
Basti pensare, a tal proposito, che in Portogallo l’81% dei turisti ha affermato di essere soddisfatto delle esperienze enogastronomiche vissute (Turismo de Portugal, 2012).

Quando Rosario Scarpato ha iniziato a parlare di «enogastronomia sostenibile» all’alba del nuovo Millennio, egli rappresentava una voce solitaria nel mondo accademico (Scarpato, 2002). Oggi, invece, sono molte più persone che parlano e scrivono di «enogastronomia sostenibile».
Alcuni, fra cui Berno (2006), esortano alla produzione di cibo biologico e a chilometro zero, una soluzione che dovrebbe verosimilmente proteggere la cucina tradizionale oggi minacciata dalla globalizzazione. Altri come Everett e Aitcheson (2016) hanno osservato che l’«enogastronomia sostenibile» può supportare la conservazione della agro-biodiversità.
La maggior parte di questi autori affronta il tema della sostenibilità enogastronomica dalla prospettiva della difesa della cucina locale e della produzione di cibo dagli effetti negativi della globalizzazione. Di conseguenza, i piccoli produttori dovrebbero essere salvaguardati nella sfida con le grandi imprese alimentari. Queste argomentazioni sono le medesime che promuove «Slow Food», il movimento che promuove la protezione dei prodotti e dei produttori locali. Ma ritengo che questo non basti.
Io credo che il concetto di «enogastronomia sostenibile» debba non solo limitarsi a questo, ma considerare un contesto allargato e al contempo includere le tradizioni culinarie, strettamente correlate al luogo da dove proviene il singolo prodotto (Richards, 2012). Ciò si ritrova, almeno in parte, nella definizione di enogastronomia come patrimonio immateriale data dall’UNESCO. Il «Pasto francese» è incluso nella lista dei beni immateriali dell’umanità. Non si tratta di un prodotto o di una pietanza specifica, ma della cultura del mangiare di questo Paese.
Come ha suggerito Scarpato (2002), ciò significa includere un’ampia gamma di pratiche gastronomiche, dalla sopravvivenza della produzione di cibo locale, dei punti vendita e dei mercati alla salvaguardia del cibo fatto in casa, dalla trasmissione della conoscenza all’educazione in particolar modo dei più piccoli, dal considerare le diversità di gusti delle persone all’impatto che il turismo può avere sull’autenticità enogastronomica (e, quindi, anche sull’intera comunità).
La cultura enogastronomica è quindi anche una pratica sociale che sui è consolidata bel tempo e in un determinato luogo. Come scritto da Hjalager e Richards (2002), questo concetto è stato esposto inizialmente da Bourdieu (1984) nel suo volume «Distinction: A social critique of the judgment of taste».
La cultura enogastronomica intesa come pratica sociale comprende tre elementi essenziali, come indicato da Shove et al. (2012): i materiali, i significati e le competenze. Infatti, per organizzare un pasto, abbiamo bisogno dei materiali di base, ovvero gli ingredienti che usiamo per preparare un determinato piatto. Una volta preparato, questo non diventa un pasto se non gli si viene attribuito un significato da parte delle persone che ne fruiscono, come una famiglia che si riunisce per mangiare insieme, o in un’occasione speciale quale la cena di Natale. Per renderlo una pratica, le persone devono avere determinate competenze che contribuiscono all’esito positivo del pasto; quali, ad esempio, sapere come determinati cibi debbano essere preparati, presentati, serviti e mangiati, conoscere il galateo a tavola, le norme e le consuetudini di gruppo.
Tutti questi elementi sono rilevanti nel concetto di «enogastronomia sostenibile». È auspicabile proteggere non solo la produzione degli ingredienti di base, ma anche quell’insieme di conoscenze, abilità e creatività che contribuisce a trasformare tali ingredienti in un pasto; e, quindi, in un’esperienza. Dobbiamo al contempo considerare che l’enogastronomia, qui intesa come pratica sociale e culturale, non rimane immutata nel tempo ma cambia. Basti pensare che i gusti attuali sono differenti da quelli del passato, così come i materiali utilizzati e le capacità delle persone. Così potranno essere diversi quelli dei nostri figli.
Ciò che risulta importante è che la cultura enogastronomica dei luoghi sia sostenibile. Essa potrà cambiare in termini di prodotti, significati e competenze, ed è una cosa già avvenuta in passato. L’importante è saperci adattare al cambiamento, stimolandolo attraverso la creatività e l’innovazione e guardando così le tradizioni enogastronomiche nel
futuro.