Rossano Pazzagli, Università degli Studi del Molise
Professore di storia moderna all’Università degli Studi del Molise. È stato direttore dell’Istituto di Ricerca sul Territorio e l’Ambiente “Leonardo” di Pisa e fa parte di diversi comitati scientifici. È autore di oltre 200 pubblicazioni di storia economica e sociale, riguardanti in particolare le trasformazioni del territorio e del mondo rurale nell’età moderna e contemporanea. Inoltre fa parte della redazione delle riviste “Ricerche storiche” e “Glocale”, di cui è condirettore. Inoltre, dirige la Scuola di Paesaggio ‘Emilio Sereni’ presso l’Istituto Alcide Cervi, è esponente della Società dei territorialisti e Accademico Georgofilo.
L’Italia ha un territorio delicato, da maneggiare con cura. Il turismo, in particolare il turismo enogastronomico, può certamente rappresentare una delle gambe sulle quali far camminare la rigenerazione economica e culturale delle aree rurali in chiave sostenibile. Una rinascita che appare necessaria per contribuire alla transizione ecologica e sotto vari aspetti urgente per rispondere alla crisi del modello urbanocentrico, industriale, estrattivo e consumistico che si è affermato nella seconda metà del ‘900. Se ci si è chiesti «quale tipo di turismo?», conviene anche domandarsi, ai fini della sostenibilità dei flussi e delle modalità di fruizione del patrimonio alimentare, «quale tipo di turismo enogastronomico?». Un interrogativo necessario, se vogliamo evitare i rischi di una massificazione dell’offerta, una «disneylizzazione» delle campagne e dei paesi, l’overtourism di determinate destinazioni e quel fenomeno di «globalizzazione del tipico» che sta emergendo in diversi contesti rurali. Sembra un ossimoro, ma non lo è: al di là delle questioni terminologiche, è ormai evidente una tendenza verso narrazioni stereotipate dei paesi diventati borghi, della campagna del tempo che fu, degli eventi e dei festival gastronomici, del prodotto locale spesso considerato impropriamente genuino, tipico, tradizionale. Occorre affermare con determinazione che è il tempo delle specificità, non dell’omologazione.
La lettura del territorio, che si esprime nei prodotti e nei paesaggi, è dunque la base del turismo enogastronomico sostenibile, cioè di quello che salvaguarda il rapporto tra produzione di cibo e contesto naturale e che prescinde dalla logica dei numeri. Un turismo diffuso, quasi disperso, lento ed immersivo, non sempre necessariamente organizzato, legato realmente ai produttori da un lato e al tessuto commerciale dall’altro; non al mercato massificato della grande distribuzione, che si va appropriando anch’essa del «tipico», quanto piuttosto alle nicchie del piccolo commercio locale: quello delle stesse aziende produttrici e quello dei negozi di strada o di paese. I prodotti alimentari – pane, pasta, olio, vino, formaggi, carni, formaggi, tartufi e l’infinita catena del paniere gastronomico italiano e mediterraneo – sono gran parte di ciò che è rimasto, sopravvissuti all’esodo rurale che prese avvio come fenomeno complementare cosiddetto boom economico degli anni ’50 e ’60 del Novecento. Sono una componente fondamentale del patrimonio territoriale delle aree interne del Paese.
Le aree interne coprono gran parte dell’Italia. Sono campagne e paesi divenuti fragili a causa di un modello di sviluppo che ha privilegiato le città e le coste, polarizzando attività economiche, servizi e abitanti. Eppure, in questo vasto spazio rurale non è rimasto il vuoto, il niente. Dietro le finestre chiuse, i campi incolti o tornati bosco, lungo le siepi disfatte e nei paesi solitari c’è ancora una ricchezza velata ma forte, che negli ultimi decenni ha ricominciato a esprimere le proprie potenzialità. Lo ha fatto innanzitutto attraverso i prodotti e le filiere del cibo che uniscono produzione e consumo, rurale e urbano, fatica e gusto. Così, c’è un passato che torna in forme nuove, vocazioni e tradizioni che si affacciano sul tempo incerto del presente. Una spinta innovativa che si sostanzia in processi di retroinnovazione che recuperano saperi e sapori, senza che ciò equivalga a un ritorno all’indietro.
Il paesaggio riflette questa trasformazione di pratiche e di abitudini: formatosi nella millenaria prassi di generazioni di agricoltori e pastori, ha conosciuto il declino, la rottura delle trame storiche e la rarefazione del mosaico. Prodotti e paesaggio hanno sempre interagito nel corso del tempo. L’esperienza enogastronomica è figlia di questo binomio, esito storico del rapporto tra uomo e natura nel quale gli agricoltori – coltivatori, allevatori, boscaioli, ecc. – hanno dialogato incessantemente con l’ambiente alla ricerca di un equilibrio mai stabile, sempre mutevole e problematico ma comunque sostenibile. Poi il Novecento ha cambiato tutto: i processi di mercantilizzazione, di meccanizzazione e specializzazione colturale, di industrializzazione dell’agricoltura in alcune parti del territorio e di abbandono in molte altre, hanno provocato la rottura di quell’equilibrio, seppure instabile, generando insostenibilità.
L’enogastronomia sostenibile è allora quella che cerca di invertire la rotta, che rifiuta la massificazione dei prodotti, dei paesaggi e del gusto, che rifugge le forme ambientalmente non compatibili della produzione agricola, che destagionalizza i flussi e li distribuisce più equamente tra città e campagna, che restituisce dignità ai luoghi marginali, che si dipana su strade e sentieri meno noti e che rispetta e promuove i modi di essere delle comunità locali. Per restare effettivamente sostenibile, sia dal punto di vista ambientale che sociale, il turismo enogastronomico non può chiudersi in una visione elitaria, ma deve allontanarsi dalle retoriche snobistiche e recuperare una dimensione popolare. Su questo punto sembra ancora lunga la strada da percorrere, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta: un percorso di ordine culturale che accompagni e mitighi la preoccupazione economica del turismo come business, che finirebbe inevitabilmente per riprodurre il modello estrattivo e per ridurre il valore culturale dell’esperienza turistica.
Assumendo questo profilo e distribuendosi sul territorio, il turismo enogastronomico risponderebbe ai tre requisiti basilari della sostenibilità – ecologico, economico e sociale – contribuendo a ridare vigore al policentrismo e alla pari dignità dei territori, riportando i margini al centro o, se preferiamo, il centro in periferia.